Guida pratica per aspiranti game designer (parte quarta: il progetto)

Abbiamo visto nell’ultimo capitolo come il Framework DPE faccia una distizione molto importante fra il nostro progetto, chiamato design,  l’atto del giocare, chiamato play, e l’esperienza di gioco, ossia l’experience. Facendo a ritroso il percorso possiamo vedere come il nostro desiderio sia che il nostro gioco veicoli un’esperienza, solo che non possiamo influenzare direttamente come il gioco verrà giocato, avendo controllo soltanto sul progetto stesso. Quello che vogliamo, dunque, è che il progetto – composto da materiali, regole, ambientazione – faccia emergere un certo tipo di sensazioni ed emozioni mentre viene giocato.

Più facile a dirsi che a farsi, ovviamente, ma per nostra fortuna ci sono una serie di “paletti” su cui possiamo far poggiare il nostro design. Ogni gioco ha infatti una serie di caratteristiche su cui possiamo lavorare: numero di giocatori, durata, quantità e qualità dell’alea (o, meglio, delle fonti di incertezza), quantità e qualità dell’interazione, e così via.

Non esagerate con l’interazione diretta.

Quando iniziamo a definire quello che sarà il nostro gioco, quindi, partiremo dal target, ossia il tipo di giocatore che vorremmo vivesse l’esperienza che abbiamo in mente. È uno dei passaggi più importanti, perché ovviamente il nostro gioco avrà caratteristiche radicalmente diverse se vogliamo che venga giocato da dei bambini, da gruppi numerosi di coetanei, da una famiglia media, dai fan di una specifica serie TV o da adulti amanti dell’horror fantasy.

Una volta definito il target, passeremo a capire, in linea di massima, il genere del gioco. Purtroppo non esiste una lista unanimemente condivisa di generi, anche perché se si parla di eurogame si tende a catalogare i giochi per meccanica principale (“worker placement”, “set collection” etc), mentre per gli american si tende a utilizzare il tipo di esperienza (“adventure game”, “dungeon crawler” etc) o anche da un mix delle due cose, anche grazie al recente proliferare di giochi ibridi, ossia non appartenenti strettamente al gruppo degli eurogame o degli american, ma che presentano una commistione dei due diversi approcci. Per quel che ci riguarda, però, al momento sarà sufficiente avere ben chiaro cosa vogliamo che facciano i giocatori: vivranno avventure rocambolesche in un setting fantasy, esplorando una storia? Cercheranno di battere gli altri in una gara d’astuzia, godendosi il gusto della sfida? Vogliamo che ridano a crepapelle facendo qualcosa di buffo? Quali sono i kind of fun (che abbiamo visto nel precedente capitolo) che vogliamo che siano incentivati e maggiormente percepiti nel nostro gioco?

Tutto quello che decideremo dopo, ossia meccaniche, ambientazione e materiali, dovrà ove consentito essere il più possibile focalizzato allo scopo di veicolare l’esperienza che avete in mente, che in gergo viene chiamata semplicemente esperienza desiderata (desired experience). Per far vivere l’esperienza desiderata al livello massimo di coinvolgimento, dovremo far sì che il gioco proponga delle scelte significative (meaningful choices), ossia scelte non banali, né forzate, né inutili, sempre in relazione al target (perché ovviamente una scelta significativa è diversa per un bambino di sei anni rispetto che per un adulto).

Target sbagliato, senza dubbio.

In sostanza, il nostro progetto deve tenere di conto di una serie di elementi, alcuni semplici da definire, altri più complessi da calibrare. Dovremo dunque definire lo scopo del gioco, il numero di giocatori e l’interazione fra loro, il mondo di gioco e la sua spazialità, le fonti d’incertezza, lo scorrere del tempo nel mondo di gioco, le procedure automatiche e quelle innescate dalle scelte dei giocatori, e così via. Se preferite, potete immaginarvi come cuochi intenti a miscelare ingredienti, scegliere tempi di cottura e aggiungere spezie e elementi utili al sapore o all’aspetto della pietanza che state preparando, in modo che sia più buona e invitante possibile per il vostro “cliente”, ricordandovi che ogni ingrediente contribuisce al risultato finale.

Il primo playtest poteva andare meglio.

Per semplificarmi (e, spero, semplificarvi) la vita, nel libro di Maresa Bertolo e Ilaria Mariani “Game Design, gioco e giocare fra teoria e progetto” ho teorizzato un “sommario” delle cose da definire in un gioco da tavolo per non farsi sfuggire nessun dettaglio in fase di progettazione, ispirandomi alle “cinque W” del giornalismo anglosassone [1]: who, what, why, where e when. In questa sede riprenderemo quei concetti e li amplieremo un po’: nel prossimo capitolo, infatti, inizieremo a vedere le “W” una per una – anche se l’ordine con cui le penseremo varierà da progetto a progetto – in modo da sviluppare giochi senza dimenticare accidentalmente qualche pezzo per strada, a partire da Why, ossia “lo scopo del gioco”.

Come sempre, domande, suggerimenti e commenti sono apprezzatissimi.

In ogni caso, a presto per il prossimo capitolo!

[1] Le 5 W vengono proprio applicate al progetto “in pratica” e non si riferiscono solo alla tematizzazione del gioco: perdonate la precisazione, ma è necessaria per non confondere il metodo proposto con i contenuti dell’articolo “The Who, What, When, Where & How of Thematic Execution” dell’ottimo Alex Harkey.

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