Cambiare idea

«Solo gli imbecilli non hanno dubbi».
«Ne sei proprio sicuro?»
«Non ho alcun dubbio».
(Luciano De Crescenzo)

Ogni tanto rileggo cose che ho scritto qualche anno fa e nella mia testa succedono di norma tre cose: prima trovo almeno sei o sette frasi che scriverei in modo completamente diverso e mi dico che scrivo male, poi mi maledico per quanto sono prolisso, infine quasi sempre scopro che non sono più così tanto d’accordo con me stesso.

“Vabbé, hai un problema di autostima, parlane con un professionista”, suggeriranno in coro le cinque persone che leggono ancora il blog. In realtà questo incipit nasce da una riflessione abbastanza contorta su “coerenza” e “capacità di crescere”. Perché se da un lato essere coerenti (soprattutto dal punto di vista etico) l’ho sempre vista come una qualità, penso anche che non cambiare mai idea, non correggere il tiro dei propri pensieri e non mutare mai le proprie convinzioni sia una tendenza, se non “pericolosa”, quantomeno molto poco saggia.

Mo’ non sto parlando dei grandi dilemmi esistenziali, tipo “c’è un qualche dio da qualche parte?” o “nella carbonara ci va il guanciale o la pancetta?”. Parlo di cose più terra terra. Per esempio, qualche anno fa scrissi una serie di articoli per Gioconomicon in cui parlavo di giochi e, nello specifico, di interazione, di fonti di tensione, di difetti “codificati” nei giochi. Non c’era niente di “sbagliato” negli articoli, ma se dovessi riscriverli oggi sarei sicuramente meno ossessionato dallo stabilire il più incontrovertibilmente possibile cosa è corretto e cosa no dal punto di vista del design, amplierei molto le parti in cui dico che moltissime cose sono soggettive e in generale ribadirei come ogni catalogazione deve servire a qualcosa (ritrovare informazioni, parlare in modo comprensibile, organizzare i pensieri per progettare meglio etc) e non dev’essere una scusa per fare flame in qualche gruppo Facebook.

Soprattutto parlando di “difetti formali”, che ormai sappiamo essere mediamente dinamiche emergenti che generano frustrazione, noia o mancato appagamento nel giocatore, avrei un approccio molto diverso, sottolineando come un “difetto” è spessissimo dipendente dal genere, dal momento storico, dai gusti di chi gioca e da altre mille cose. Prendiamo uno dei più “universalmente noti”, come il downtime: sicuramente dover aspettare il proprio turno senza avere una ceppa da fare è qualcosa di spiacevole o, quantomeno, noioso, ma secondo me è anche vero che:
– In alcuni giochi, avere qualche momento morto è il prezzo da pagare per avere turni ricchi di opzioni e la possibilità di sviluppare degnamente la propria strategia.
– Non tutti “pensano” e decidono alla stessa velocità: quello che è downtime per Impazienzo è “il tempo necessario a decidere che azioni fare” per Cautonio.
– Ci sono persone che vogliono che i giochi siano “serrati”, che tengano la mente continuamente impegnata, e altre che preferiscono giochi più rilassanti, con tempi più lunghi e meno colpi di scena, e la stessa percezione di cosa è “serrato” e cosa “rilassato” è almeno parzialmente soggettiva.
– C’è chi è interessatissimo alle giocate altrui o a impostare “in avanti” la propria strategia e chi invece gioca “come viene” e poi si disinteressa parzialmente del tavolo finché non è nuovamente il suo turno, che si parli di Bang! o di Twilight Imperium.
– In alcuni giochi i tempi morti fra turno e turno corrispondono esattamente al tempo necessario per fare una partita a Marvel Snap.

Scherzi a parte, probabilmente è “facile”, e in qualche modo rassicurante, pensare che il downtime sia un difetto assoluto o che esista il concetto stesso di “difetto formale”. Se ragioniamo dal punto di vista di chi gioca, ci permette di bollare come “sbagliato” qualsiasi gioco ne sia affetto, mentre se pensiamo da designer ci permette di avere una direzione chiara e netta, evitando i tempi morti come un immunodepresso eviterebbe un raduno no vax.

Se però ci ragioniamo un attimo ci rendiamo conto di come, secondo me, un pensiero così poco elastico ci sia più d’intralcio che d’aiuto. Come si fa a quantificare “quanto grave” è la presenza di tempi morti nel proprio gioco? Per ridurre il downtime, stiamo sacrificando altri elementi importanti o rendendo il gioco “forzatamente” serrato anche quando a chi gioca servirebbe un attimo di respiro? Questo ragionamento si può applicare a quasi tutti i “difetti formali”: ovviamente il kingmaking è fastidioso, se è possibile che una persona non in lizza per la vittoria determini chi vince c’è probabilmente qualcosa che non va… ma quante volte succede? Impedire alla situazione di verificarsi quanto mordente toglie al gioco? Inserire meccaniche che fanno sì che si eviti il problema, quanto appesantisce il regolamento?

Ora, sulla questione specifica dei “difetti” mi farò odiare riassumendo come la penso con “per me è opportuno valutare caso per caso, a seconda del target e del genere del gioco”, ma in generale questa dei difetti formali è una scusa per dire che, secondo me, è davvero salutare prendersi un po’ di tempo per rivedere le proprie “convinzioni”, senza per questo sacrificare necessariamente la coerenza, ma prendendo atto che quando si impara a fare qualcosa è normale affinare e limare il proprio metodo e mettere in discussione ciò di cui siamo convinti al fine di migliorarci sempre di più.

Per concludere propongo un piccolo gioco: su cosa, ludicamente parlando, avete platealmente cambiato idea? Ovviamente comincio io: per diversi anni sono stato convinto che i giochi “belli” fossero quelli che duravano meno di 90 minuti. Adesso non solo non ho più la pretesa di sapere cosa è bello e cosa e brutto, ma quasi tutti i miei giochi preferiti durano minimo due ore. Quelli corti, almeno.

E voi? Su cosa avete cambiato idea in modo radicale?

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