L’articolo che cito non solo è davvero poco utile ma, anzi, è fuorviante. Non ne metto in dubbio le buone intenzioni, e sono contento che comunque si parli di alcune criticità dell’hobby videoludico; d’altro canto, però, ci sono inesattezze ed errori gravissimi che, come spesso accade, rischiano di confondere, di creare allarmismi e di attirare lo sguardo del lettore sul dito e non sulla luna.
Va detto che la stessa redattrice, in passato, aveva espresso in un altro articolo posizioni condivisibili sulla dipendenza da internet (e da un certo tipo di gaming). E lo aveva fatto con argomenti a mio avviso decisamente solidi, forse perché l’articolo parlava più del fenomeno dal punto di vista psichiatrico e psicologico – che sono il suo campo di specializzazione – senza addentrarsi troppo nella storia e nella teoria del videogioco.
Ne avevo già parlato in un altro articolo, ma ri-attualizzerò il concetto: se a seguito della visione di Bird Box – film Netflix in cui i protagonisti devono stare spesso bendati per non incrociare lo sguardo di creature in grado di far impazzire con un’occhiata – dei ragazzi si sfidano a fare cose pericolose bendati, la colpa non è del film. Bisogna invece capire perché qualcuno sente il bisogno di mettersi alla prova in questo modo, perché togliendo di mezzo il film cambierebbe solo il modo in cui la challenge mortale viene proposta. Sono fenomeni collaterali all’opera, come le shitstorm sugli attori che interpretano personaggi sgradevoli, messe in atto da utenti evidentemente non in grado di scindere fra interprete e personaggio fittizio. Mi pare chiaro che il problema stia nei processi mentali e nel distacco dalla realtà di questa (minima) parte del pubblico, non dell’opera in sé.
Quindi mi chiedo su quali testi la redattrice stesse “studiando l’argomento a fondo”, visto che parla di gioco online citando giochi non online e visto che che la frase che segue l’affermazione sullo “studiare a fondo” è proprio quella che confonde videogioco e challenge sociale, che è un po’ come se un ragazzino cadesse da un palazzo perché sfidato dai compagni a farsi un selfie fuori dalla finestra e si volesse dare la colpa agli smartphone anziché chiedersi perché i ragazzi si comportano così e perché i genitori sembrino non avere la più pallida idea dei malesseri, delle emozioni e dei problemi dei propri figli.
Nell’articolo si citano recensioni senza fonti, teorie sull’intrattenimento che ai miei occhi appaiono quantomeno bizzarre (sembra quasi che il “voler coinvolgere” dei videogiochi sia una colpa, laddove è la base delle opere di intrattenimento, quando ascoltiamo canzoni o vediamo film vogliamo che siano emozionanti, coinvolgenti, non noiosi!), e banalizzazioni estreme rispetto ai generi e alle tipologie di giochi, che più che sembrare frutto di uno “studiare a fondo” assomigliano al luogo comune, superficiale e disinformato, di una chiacchiera da bar.
La parte “descrittiva” dell’articolo, insomma, pone un accento troppo forte (e soprattutto tramite argomenti pieni di errori difficilmente attribuibili a qualcosa di diverso da una forte confusione e ignoranza sull’argomento) sul fatto che esistano “giochi pericolosi” e “dinamiche misteriose e sconosciute”, come se un’opera potesse essere pericolosa solo esistendo o come se nessuno, fino a oggi, avesse mai subito pressioni sociali in ambito scolastico o fosse mai stato sfidato a fare qualche cavolata pericolosa o scommessa bizzarra da qualche compagno; in opposizione a questo piccolo disastro, l’enfasi sul ruolo di genitori ed educatori appare drammaticamente insufficiente.
Forse sarebbe il caso di smetterla di cercare capri espiatori (siano essi giochi, film, dischi o libri) e di iniziare a provare sia a capire di cosa si sta parlando, e di non farlo solo e platealmente in modo estremamente superficiale, sia di ascoltare, capire e indirizzare i ragazzi verso una fruizione consapevole e sana di ciò che interessa loro: va bene il monito finale, quello che invita a stare insieme ai ragazzi, ma prima smettiamo di demonizzare opere e di additarle come “pericolose”, perché non lo sono mai in sé, ad essere pericoloso è il loro uso improprio e senza controllo da parte di chi dovrebbe capire, indirizzare e spiegare, e diffondere ignoranza non aiuta certo a combattere il problema reale.
Perché parlare di videogiochi e di problemi legati ai videogiochi va bene, purché se ne parli in modo corretto e non superficiale: altrimenti non si risolve nulla e, anzi, si fanno solo ulteriori danni.